«Look up! What do you see?» canta Stipe dalla lettera scritta nell’autobus delle quattro del mattino all’amico scomparso. L’autobus è il numero 15, e dal centro di Turku mi porta verso l’arcipelago. Qua sono le 9, e l’agile mezzo di trasporto, da Merimiehenkatu, dopo aver svoltato a destra, imbocca Stålarminkatu, corre veloce lungo la discesa e, appena dopo S-market, esplode nel fascio di luce che investe il ponte sul Baltico, quello dal quale è possibile vedere Majakkaranta, il punto esatto in cui il fiume chiede al mare “will you ever welcome me?”: è la foce dell’Aurajoki.
Majakkaranta è uno dei miei quartieri preferiti, in città: pacifico, intimo… A parte gli uccelli e qualche vecchietto in cerca di sole, davvero non c’è altro, e si può godere del silenzio che porta al cervello belle manciate d’aria fresca: il posto ideale per “indossare la propria corona di tristezza” senza imbarazzi (nel frattempo, E-Bow the Letter ha smesso di suonarmi nelle orecchie e io posso smettere di citarla).
Quando abitavo a Martti, ci venivo spesso qui, e ci arrivavo a piedi, camminando lungo la sponda est del fiume, attraverso Telakkaranta, e lasciandomi alle spalle Suomen Joutsen, “il cigno finlandese”, la bellissima imbarcazione bianca di 96 metri e i suoi tre alberi che dominano il ponte, un tempo fiore all’occhiello della Marina Finlandese, ora museo e simbolo della città (i finlandesi ne sono orgogliosi, ma in pochi sanno che in origine era francese e che è approdata in Finlandia solo 30 anni dopo il varo).
A riportarmi a Majakkaranta è il libro che ho appena letto, L’Isola dei senza memoria di Yoko Ogawa: una bella storia ambientata su una strana isola i cui abitanti perdono immediatamente il ricordo delle cose andate. Solo in pochi hanno la sventura di essere diversi, di ricordare, di mantenere la memoria, e sono i meschini perseguitati dalla Polizia Segreta, lo strumento di repressione e controllo che si adopera affinché non rimanga traccia di ciò che è scomparso. Una grande città invisibile di Calvino con tratti di distopia alla Orwell.
L’immagine più bella del libro, bella e terrificante, è quella che descrive la sparizione delle rose: gli abitanti dell’isola portano al fiume fino all’ultimo esemplare di quel fiore e, riversando il tutto nelle acque, ricoprono completamente la superficie con milioni di corolle di vario colore. Il letto del fiume – trasformatosi in qualcosa che m’immagino simile a un sentiero multicolore dipinto da un maestro puntinista – accompagna lentamente le rose fino all’imbocco del mare e, in un profumo che avvolge e stordisce ogni cosa, le consegna alle onde che le ingoiano: da quel momento, è come se non fossero mai esistite, cancellate per sempre… “Dove il fiume bacia il mare”, io sono in cerca di petali.
Dal punto in cui mi trovo, separata da appena 200 metri di mare, si vede l’isola di Hirvensalo e il suo Hiihtokeskus, il piccolo impianto sciistico che quest’anno si è dovuto accontentare della neve artificiale e di pochi clienti: un inverno senza neve in Finlandia, lo diresti mai? C’erano tutte le premesse per potersi aspettare un anno strano!
Lascio cadere un sassolino dal palmo della mano, e gli uccelli, prima pacifici, si agitano sulla mia testa fintanto che credono sia pane, fino a che non dimenticano di averci creduto e si placano, per poi rifiondarsi, con la stessa urgenza, all’equivoco successivo, al sasso seguente, come se il significato stesso del loro volo fosse in qualche modo legato all’impossibilità di fare esperienza, di “imparare la lezione”, a questo modo ingenuo di rimanere “leggeri”: sorrido e ci vedo una metafora dell’innamoramento.
Camminando ancora un po’, mi accorgo del suolo che cambia consistenza sotto i miei passi, e realizzo di essere arrivato alla piccola spiaggetta che si affaccia su Turun Linna, il pesante castello medievale che vede i ricordi sparire fin dal XIII secolo.
Le cuffiette attaccate alla musica mi dicono che è la stessa spiaggia in cui Nick Drake ha incontrato la sua Princess of the Sand, quella che “emerge dai sogni dimenticati”, quella che sfugge tra le dita, quella i cui occhi “portano il peso di migliaia di altri occhi” (il genere di occhi che riconosci perché cambiano di colore). L’ascolto tutta, la canzone, e il mulinello di polvere che si solleva improvviso da terra mi restituisce, intatta, l’amarezza della sorte toccata a questo giovane poeta, a questo ragazzo morto di malinconia (devo aver letto da qualche parte che “la malinconia è depressione arricchita di fascino”: dal depresso ti allontani, del malinconico t’innamori).
Quando è ormai ora di pranzo, decido che è tempo di prendere lo stesso autobus ma in direzione opposta: torno a casa. «My loss, here we go again!» ricomincia Stipe a Merimiehenkatu, e mentre la pioggia inizia ad infrangersi sul finestrino, io, leggermente assonnato, guardo in strada e mi chiedo se la Polizia Segreta non sia già sulle mie tracce.