Tra mille parole

Questa pagina del blog vuole ospitare racconti della lunghezza esatta di 1000 parole – né una in più, né una in meno.
Tra mille parole le cose accadono, e in 1000 parole sono raccontate.

Indice:
#1: La colonna rotta: un uomo muore tra mille parole. (Enzo Bello)
#2: Tra mille parole. (Luca Tedoldi)
#3: Steso tra mille parole. (Massimo A. Prisco)

#1: La colonna rotta: un uomo muore tra mille parole. (Enzo Bello)

Questa è la storia dell’uomo che non poté più parlare con lei. Erano state le due mediatrici a passargli la dichiarazione con la quale s’impegnava, tra l’altro, a smettere di scriverle: nell’attimo esatto in cui impugnò la penna per firmare il documento, perse ogni interesse nelle parole, e visto che non avrebbe potuto indirizzarle a lei, decise che, a partire da quello stesso lunedì, ne avrebbe fatto a meno per sempre. Già nell’autobus verso casa, quindi, cominciò ad eliminare parole, e partì da quelle che non usava praticamente mai: udienza, giudizio, archiviazione… Roba rimasta lì ad ammuffire dai tempi della tesi di laurea! Continuò, poi, con quelle superflue: al supermercato poteva acquistare il pane senza nominarlo, e al ristorante, senza usare vino, avrebbe potuto indicarlo sulla carta e annuire al cameriere come fosse un grazie. Senza intoppi, le parole andavano via come petali di margherita, sfoltite dalla coscienza dell’uomo senza rimpianti: le aveva viste accumularsi in anni di discussioni che non avevano portato a nulla, e ora le vedeva sparpagliarsi soffiate via dal vento. Provava piacere a recuperarle dall’archivio, ad osservarle per un attimo, e a renderle mute, uccidendole: borderline, dissociazione, disturbo, ferita, denuncia, processo… Andò avanti tutta la notte, e così il giorno dopo, senza muoversi dalla scrivania, senza tregua, fino a che non fu il sonno a fermarlo per qualche ora.

Quello che nei primi due giorni era stato un processo di eliminazione volontario, un rifiuto consapevole, si era trasformato, già mercoledì, in qualcosa di diverso, che sfuggiva alla sua disposizione, e l’uomo, soddisfatto, capì che ormai le parole si stavano perdendo da sole: il cervello, assuefatto allo stillicidio delle prime 48 ore, sollecitato dalle massicce dosi di benzodiazepine, aveva continuato in quel lavoro di rimozione, e si era messo d’impegno a consegnarle all’oblio. Una dopo l’altra, come su un rullo di una catena, le parole compievano il percorso opposto a quello che le aveva incasellate nella memoria: attraverso il lobo frontale, scorrevano nell’ippocampo e poi nella corteccia celebrale, e da lì, spinte dagli impulsi nervosi, uscivano dalle cornee e dai padiglioni auricolari. Quella mattina non poté fare colazione perché non trovò la parola cucchiaio, e il giorno dopo, quando a perdersi fu autobus, dovette andare a piedi. Quando una parola si perdeva, infatti, si portava dietro ciò che essa indicava, o meglio, sebbene presente fisicamente, ciò che essa indicava perdeva ogni funzione e qualità, diventando inutilizzabile. “Rosa è una rosa è una rosa è una rosa”, le cose sono quello che sono e il nome svela il mondo che implicano: ecco, da quel momento, il mondo se ne andava con la parola, e la rosa fu persa da quando si perse la rosa. E se l’uomo tentava di recuperarla, la rosa, magari sforzandosi di leggerla su un biglietto, non poteva, perché ormai al segno non corrispondevano immagini o concetti: il contenitore era vuoto e le lettere, impronunciabili, erano divise da una specie di voragine che le rendeva insignificanti. Le parole avevano smesso di evocare, e fu quello il momento in cui l’uomo ebbe paura, perché realizzò che non avrebbe potuto più leggere le parole di lei, quelle che tempo addietro aveva scritto per lui, e trascorse la notte a cercare di trarre qualcosa da quei fogli, di coglierne il senso, di non perdere tutto, ma senza alcun risultato: finì per rimanere appeso al cappio che pendeva dalla T, legato alla I che sembrava un palo, a testare la piccola scossa della serpentina elettrica AM, rinchiuso in una O senza uscita…

Il venerdì mattina, appena sveglio, quando ormai aveva perso la metà delle parole, l’uomo fu assalito da pesanti fitte allo stomaco. I sintomi, sebbene fastidiosi, erano quelli di una banale cattiva digestione, ma la sconcerto del medico fu grande quando, avvicinando la radiografia alla luce artificiale, s’accorse che la dispepsia era provocata dalla parola rimorso che ostruiva il duodeno. E non era la sola, lì: c’erano tutte le parole che l’uomo aveva perso finora, ammassate tra lo stomaco e i due intestini, accatastate negli interstizi del corpo, impigliate e rotte come legni. Succedeva che le parole perse, formattate in “Calibri 11”, finissero ad occupare una superficie equivalente all’interno del vuoto dell’uomo, e se nei primi giorni non c’erano state avvisaglie a causa della notevole ampiezza del vuoto in questione, ora, con la misura che cominciava ad esser colma, si palesavano i primi disagi: le parole che credeva di aver perso, gli erano rimaste tutte dentro.
Il medico – forse perché ci credeva, forse perché davvero non sapeva cosa farci – non prescrisse altro che farmaci per l’acidità gastrica.

L’uomo poté tornare a casa solo dopo aver firmato la liberatoria in cui si diceva consapevole dei rischi (era la seconda in una settimana), e passò la giornata a guardare la lastra, a rileggerla come una lettera mai spedita, cercando di ricostruire il percorso delle parole che s’ammucchiavano fino a diventare illeggibili; e così ricominciava daccapo, risalendo dal fondo, quasi si trattasse di enigmistica, di un folle inseguimento delle mezze parole che incrociandosi ad altre ne creassero nuove: da amori finiti e da normale delirio ci colse i fiori del male.
La radiografia evidenziava anche pesanti danni alla postura, alla colonna vertebrale sempre più scomposta, sempre più sgraziata e dolorante, e che rendeva quel referto medico simile al negativo di un autoritratto di Frida Kalho: piegato in avanti e in preda agli spasimi, si aggirava per casa inghiottendo le parole che cadevano dalle pupille e dalle orecchie, e le buttava giù con fatica, sentendole occupare sempre più spazio, inesorabilmente e a un centimetro alla volta, lungo la colonna rotta. Esausto e pallido, trascinandosi a una sedia e con le fitte che ormai erano tutte nel cuore, andò avanti per altri due giorni, fino a quando, la domenica sera, con malinconia e silenzio che intasarono del tutto l’esofago, l’uomo cadde al suolo con gli occhi rivolti al soffitto, e nell’attimo in cui capì di non poter pronunciare il nome di lei, sentì quelle ultime lettere incastrarsi all’altezza della faringe, e morì asfissiato.

La colonna rotta (particolare). Frida Kalho

#2: Tra mille parole. (Luca Tedoldi)

Tra mille parole stava tentando di convincere l’altro ad aprire quella dannata porta. Dicendo che ne aveva diritto, che quella era una situazione chiaramente assurda, che non avrebbe potuto continuare ad urlare, che aveva definitivamente perso la pazienza, che poi, una volta annullato quell’ostacolo, avrebbe anche annullato la persona che vi si nascondeva dietro, oppure che lo avrebbe fatto quantomeno arrestare, che un tale sopruso avrebbe sicuramente fatto indignare tutti, che nessuno si era mai permesso di opporglisi con quella insistente cecità, che dopo gliene avrebbe dette quattro, mentre gliene stava dicendo già tantissime. Desistere sarebbe stato inutile, perché ormai quella porta chiusa gli era entrata dentro. Ed anche lì si trattava di spingere, di bussare, di lanciarsi contro quella forza impenetrabile. Eppure ormai era lì, si era intrufolata nella sua vita e nella sua mente. Prima fuori, poi dentro. Lui cosa voleva fare, di male? Voleva uscire. Solo uscire. E da fuori qualcuno aveva deciso che non era proprio il caso. Ora si stava acquietando, stava respirando. Ci doveva essere una ragione. Forse aveva commesso qualche sproposito ai danni di qualcuno. Forse la vittima era proprio lì a tenere ferma la porta. Ora doveva solo avvicinarsi e convincerlo, con mitezza, con dolcezza. Aveva sbagliato tutto, lo aveva aggredito, minacciato. Avrebbe dovuto mostrare comprensione, superare l’egoismo, la viltà di non ammettere il misfatto. Che idiozia. Perché pensare ad una colpa, perché battersi il petto per l’ennesima volta, come il gas che gli avevano fatto respirare fin da piccolo gli aveva insegnato. Ora, del resto, quella porta sembrava aver cominciato a battersi da sola. Sentiva dei colpi dentro, pur senza sentire male. Contro chi si era rivolto all’inizio? Ora stava seduto accanto alla porta di casa. Cos’era accaduto? Prima voleva uscire. Qualcosa lo spinse di nuovo dentro, dopo una lieve apertura dell’inizio. Perché si era aperta all’inizio? Respiro, sentiamo il respiro, si disse. No, sentiva anche quelle minacciose percosse provenire da chissà dove, tip, tap. Ecco, sì! Era proprio quel peso iniziale, quel dubbio, quel rimuginio costante, che, accumulatosi per anni, si era cristallizzato in quel divieto di uscita! Quel continuo ostacolarsi si era riassunto in quella chiusura. Ora basta, gli aveva in realtà detto, finiscila di piangerti addosso, vantarti della tua stessa pazienza, illuderti di poter gioire della sopportazione! La tua energia è entrata in riserva, non sei più il tuo lavoro, non sei più il tuo matrimonio, hai smesso di essere i tuoi figli, hai necrotizzato le tue abitudini, i tuoi amici, i tuoi stessi atti sessuali. Ora non esci più, non sei degno. Non c’è nessuno là fuori, nessuno che spinga contro la tua voglia di vivere, oppure sei solo tu. Ora che aveva capito, si alzò e decise di spingere piano la porta. Si fermò, respirò, prese coscienza di doversi svuotare di tutto, dei ricordi e dei fatti, dell’irrevocabile identità definitiva; ossia del passato; poi delle attese, delle paure, delle speranze, insomma anche del futuro. Si sentì finalmente libero. Appoggiò la mano sulla maniglia. Spinse. Chiusa. Allo spioncino non vide nessuno. Chiusa, come la roccia. Come se non fosse una porta.

Quasi spossato, si abbandonò sul pavimento, appoggiandosi sulla porta. Non capiva, non ricordava cos’avesse fatto negli ultimi mesi. Era sempre l’ultimo ad uscire di casa, di mattina. Sua figlia andava a scuola, suo figlio all’università, sua moglie in ufficio. I suoi primi appuntamenti iniziavano sempre intorno alle 11, poche volte prima. Da anni si sentiva felice, se lo ripeteva spesso. Era riuscito a sposare la donna che desiderava da ragazzo, ad avere due figli sani e mediamente intelligenti. Viveva in una bella casa, col giardino. I suoi pochi capelli, ormai bianchi, la calvizie, l’invecchiamento di sua moglie, la bocciatura di sua figlia: gli sembrava di aver accettato tutto. E ne era orgoglioso, si ripeteva spesso di essere uno che era capace di desiderare ciò che aveva, non sognare ciò che non poteva avere. E la sua vita stava scivolando lentamente, senza terremoti. Qualche anno prima sua moglie aveva avuto un’offerta di lavoro. All’inizio s’era lasciata sedurre, era tornata a casa euforica, la cena sembrava non poter immaginare altro pasto. Lui sapeva che quelle fantasticherie non promettevano nulla di buono. Gli erano bastate due o tre domande per smontare tutte quelle velleità. Svegliarsi prima delle sei del mattino, un’ora e mezzo per arrivarci, altrettante per tornare, numerose trasferte, i pranzi veloci nelle mense affollate, il rapporto con i colleghi da ricreare totalmente. Dopo aver superato tanti esami con quelli attuali. Ricordi cosa dicevano di te? Ricordi le battute sul tuo modo di vestire? I silenzi davanti alla macchina del caffè? Hai un buon rapporto con Ettore, che ti ha aiutato mille volte. Poche moine ancora, suvvia, ne avrebbe parlato proprio con lui, il suo collega preferito. Era rimasta lì, vinta dal realismo. Poi. Suo figlio avrebbe voluto andar via dall’Italia, fare l’università all’estero. Ce n’era una interessante ad Amsterdam, i corsi tutti in inglese, lo studentato costava poco. Altra cena, altre domande appuntite. Non sapeva bene neppure lui cos’avrebbe studiato: comunicazione, sociologia, nuovi media, scienze politiche. Battute dei genitori sui personaggi televisivi su cui avrebbe scritto la tesi. Sul suo inglese assolutamente precario. Sulle biciclette olandesi. Battuto dal sarcasmo, sepolte le illusioni, s’iscrisse a Legge. Era contento della sua famiglia, andava bene così. In fondo qual era il problema di quella porta? Nessuno. Poteva restare chiusa, avrebbe rinviato gli appuntamenti. Avrebbe appoggiato i calzini sul tavolino. Si sollevò velocemente, prese carta e penna. Si mise lì al tavolo, spalle alla porta, che non era più un cruccio. Cambiò idea, gli serviva il computer, quelle parole dovevano restare. Iniziò a battere i tasti insieme alle percosse che sentiva dentro. O forse era un ticchettio da fuori? Ma non poteva fermarsi, non c’era nessuna necessità. Doveva trovare le giustificazioni di quella scelta: pochi avrebbero capito la motivazione di quel lavoro da casa, di quella sparizione. Tip, tap, più batteva sui tasti, più si convinceva. Si tolse le scarpe. Quando suo figliò ritornò, trovò un uomo paralizzato tra mille parole.

Autoritratto tra l’orologio e il letto (particolare). Edvard Munch

#3: Steso tra mille parole. (Massimo A. Prisco)

Una sardina in una scatola di vetro. Così mi sentivo tra le due porte automatiche, in attesa del segnale verde che mi avrebbe aperto la strada verso un sicuro futuro d’ipotetica e agognata serenità.

Osservo le piccole targhe appese fuori dagli uffici, in cerca del suo nome. L’orologio a led rossi sospeso sulla mia testa segna le 8.51, l’appuntamento è fissato per le 9.
Me l’aspetto sulla cinquantina, stempiato e sbiadito da anni di luci al neon e occhi fissi su schermi e moduli prestampati. Quando trovo il suo nome sulla porta dell’ultimo ufficio nel corridoio per un attimo lo immagino, davanti a me, così come l’avevo ideato nella mia testa mentre parlavamo al telefono, poi passo la mano sui pantaloni cercando di renderla meno spugnosa. Un secondo dopo è di nuovo umida; mi guardo le scarpe, nuove, appena lucidate. Il nodo della cravatta, stretto, troppo, devo respirare. Nell’altra mano stringo la cartelletta, carica di numeri da giocarmi alla lotteria del prestito.
Chiudo gli occhi per un istante. Busso.
Due tocchi leggeri. Troppo leggeri, penso.

“Buongiorno, lei dev’essere Alberti. Le piace arrivare in anticipo, eh? Bene. Si accomodi pure”.
L’ufficio è piccolo, una scrivania grigia e poco più. Dietro, da una classica sedia da impiegato mi osserva Giampiero Marini, o meglio, il Dott. Giampiero Marini, come ricorda la targa dorata davanti a lui, in bella vista. Indossa un completo grigio, in tinta con la scrivania e il resto della banca, una camicia bianca d’ordinanza e occhiali spessi, dalla montatura costosa. La mia immaginazione si era avvicinata molto alla realtà.
Sposto con impaccio una delle sedie riservate ai clienti, tenendo sempre salda nella mano la cartelletta. Prima di accomodarmi allungo l’altra mano, sempre umida, in una stretta sfuggevole. Il Dottor Marini mi guarda compiaciuto.
Vittima e carnefice.
Il silenzio viene rotto dal suono del telefono, posto vicino allo schermo del computer alla sua destra.
“Mi perdoni”.
Mentre prende il cordless per rispondere rilasso le gambe, tese e nervose, che si agitavano sotto la scrivania. Faccio un sospiro guardandomi intorno, sulla scrivania pile di cartelle, decine di foglie, migliaia di parole, appesi alle pareti un paio di calendari, un altro orologio e due cartelloni pubblicitari che promettono prestiti facili e futuri sereni. Un ossimoro fatto poster. Facce giovani e sorridenti, di chi probabilmente non si è mai dovuto sedere al mio posto. Gli occhi spaziano dappertutto, spinti involontariamente ad evitare il contatto diretto coi suoi, grigi, come il vestito, la scrivania, la banca; nascosti dietro lenti pesanti, come l’aria che si respira.
Quando riattacca inevitabilmente tornano da lui.
“Bene, Sig. Alberti. Vedo che ha portato con sé i documenti che le ho chiesto”, dice abbassando le lenti con la mano destra in direzione della cartelletta.
“Oh, sì. È tutto qui dentro”. Allungo la mano porgendogliela.
La apre davanti a sé, distribuendo a ventaglio fogli pieni di numeri che dovrebbero rappresentarmi. Prende una penna dal taschino della giacca, tenendola fra le dita, mentre col mouse apre sullo schermo qualche finestra, l’unica della stanza.
Passano secondi lunghi secoli, in cui i suoi occhi saltano dai fogli allo schermo, deviando ogni tanto su di me, impegnato a seguire le fughe del pavimento.
“Bene, devo dirle che la situazione non è così complicata. Non vorrei sbilanciarmi, ma credo di poterle dire”. Qualcuno entra alle mie spalle all’improvviso, senza bussare.
“Giampiero devo parlarti”. La voce è debole, strana. Volto appena lo sguardo dietro la mia spalla; è una donna bionda, sulla quarantina, indossa un completo bordeaux fatto su misura, una collana dorata dondola, battendo contro una camicetta rosa.
“Donatella scusa, ma ti sembra il modo di interrompere? Come vedi ho un cliente”.
“Giampiero è urgente, vieni fuori un secondo per cortesia”. La sua voce ora è rotta dall’emozione.
“Mi deve scusare Alberti, torno subito”.

I due escono dalla stanza, lasciandomi in compagnia dei miei pensieri. Cerco di leggere gli appunti presi da Marini, anzi, dal Dottor Marini, ma non mi dicono niente. Mi alzo, nervoso, ho bisogno di stendere le gambe. Giro dietro la scrivania. Lo schermo si annerisce un secondo, prima che lo screensaver faccia danzare il logo della banca.
La porta si apre di colpo, il senso di colpa svanisce, sostituito dal panico appena noto che non è Marini. Un uomo dagli occhi piccoli e scuri mi osserva, ha i capelli brizzolati, barba incolta, indossa scarpe da tennis; tra le mani stringe una pistola, puntata su di me.
Resto immobile per un secondo, poi alzo le braccia istintivamente. I suoi occhi ora guardano la targa dorata sulla scrivania. Fa un passo verso di me. Mi guarda negli occhi, li chiude un istante, preme il grilletto. Per un attimo perdo i sensi, cadendo di schiena contro il mobile alle mie spalle, trascinando con me la pila di cartelle che erano sulla scrivania. Porto le mani all’addome, dove sale il bruciore, mi piego dalla morsa del dolore, accasciandomi sulle ginocchia. Il sangue gocciola a terra scuro, denso, scorrendo tra le fughe del pavimento che osservavo qualche minuto prima, e i fogli sparsi qua e là. Vedo le scarpe dell’uomo girarsi e correre fuori dalla stanza. Mi trascino a fatica dietro di lui, sperando che qualcuno che possa aiutarmi.
Non c’è nessuno. È la fine. Dovrebbe passare il film della mia vita nella mia mente, o così ho letto da qualche parte. Ma la nausea e il dolore forse stanno impedendo la proiezione, e la rabbia la sta sostituendo con domande senza risposta. Chi era? Come ha fatto a entrare armato? Perché nessuno ha fatto nulla? Dove sono tutti? Perché cercava Marini? Perché, perché…

Ora nella mente sì che vedo immagini, ma non sono del passato; sono del futuro che avrei voluto, pagandolo con gli interessi.
Cado a terra, tra fogli e sangue, sento voci confuse e guardo l’orologio sulla parete, segna le 8.59.
È successo tutto in otto minuti, il tempo che impiega la luce del Sole a raggiungere la Terra. Anche questo mi sembra di averlo letto da qualche parte, mentre resto steso, tra mille parole.

The weight (particolare). Jack Vettriano.