Feel fine: del perché siamo finiti in Finlandia (uno dei motivi) e il Rosé

Sono a Seikkailupuisto, il bel parco cittadino, e guardo la bambina girare con la macchina a pedali tra le casette della città in miniatura, e la incoraggio a districarsi tra le viuzze, i semafori che funzionano per davvero, gli stop e la finta polizia pronta ad intervenire ad ogni infrazione. Tutto è accurato, tutto è una perfetta replica di come sono le cose per i grandi: c’è un piccola cattedrale, c’è Turun linna, le regole… Ci starebbe bene una Kela in scala, un piccolo ufficio della previdenza sociale che distribuisca caramelle.

Ci siamo fermati qui dopo un giro in centro, dopo esser passati da Alko, che qui è il negozio di alcolici. Siamo andati a salutare Lehtinen, il commesso, il sacerdote che intercede col dio delle bolle e che riceve i sacrifici in denaro. Per stasera ho scelto un rosé. Era il mio sogno essere qua? E chi se lo ricorda da questa panchina! I sogni si mischiano e non ne vieni più a capo. Diciamo che mi è andata bene: tra i tanti posti che mi potevano capitare, la Finlandia è sicuramente una terra comoda, da privilegiati. La verità è che scegli poco nella vita, e comunque tra quello che offre lo scaffale: le cose per lo più ti capitano! Non scegli i genitori e non scegli dove nasci, e dove nasci ti accompagna per sempre, come una medaglia o una scabbia a seconda di chi ti trovi davanti allo sportello di Te-toimisto, il centro per l’impiego. Non scegli i figli, l’amore (che se lo scegli non è amore) e nemmeno gli amici: quelli te li rifilano a 13 anni quando formano le classi nelle riunioni estive, coi professori che sbuffano e i registri a mo’ di ventaglio.
Io ho potuto decidere se rimanere in Italia o venire in Finlandia: cadevo in piedi comunque. Non scappavo da guerre o dalla fame, io, non ero spinto da un reale bisogno ed è per questo che nessuno se la prende con me. Funziona così, dappertutto: se ti muovi dalla tua terra perché obbligato, perché non hai scelta, perché le tue uniche alternative sono crepare o partire, i razzisti del posto in cui vai se la prendono a male! S’imbestialiscono proprio, e non ti perdonano! Se invece stai bene e ti muovi senza urgenza, senza reale necessità, senza la fame negli occhi, allora addirittura gli fai simpatia, ai razzisti. Valli a capire! La disperazione la vogliono tutta per loro, non gliela devi proprio toccare! E no, gli immigrati non sono tutti uguali: io appartengo alla “prima fascia”, quella che li fa sorridere, gli impiegati di Te-toimisto.

Seikkailupuisto, Turku: “l’incrocio tra Timanttitie e la stradina che porta alla riproduzione della Tuomiokirkko”.

Tra le varie ragioni che c’hanno spinto in Finlandia, c’è ovviamente nostra figlia, quella che si è appena schiantata contro un segnale all’incrocio tra Timanttitie e la stradina che porta alla riproduzione della Tuomiokirkko. Alla fine, fai come tutti: riempi per bene i piatti della bilancia e decidi dove possa andar meglio. La nostra bilancia pendeva verso la Finlandia. “Dove è meglio che cresca? Dove è più facile esser donna, in Italia o in Finlandia?”, erano le domande. Beh, in Italia ultimamente sembra tirare davvero una brutta aria, ed è per questo che alla fine abbiamo deciso di portarla via, nostra figlia. Via dalla volgarità crescente, via dal clima d’odio, dallo scetticismo, dall’aria di sufficienza e dalle risatine che circondano sempre più le donne nella penisola. Tra cyberbullismo, revenge-porn e body shaming, la nostra terra s’incattivisce e si rivela una nazione misogina in cui la carriera delle donne è sempre sospetta, l’opinione è leggera e il crimine già aggravato (e lo stupro è la prima pena che viene augurata dai leoni da tastiera all’imputata). Un paese che alla donna sembra voler riservare il ruolo di soubrette o, al massimo, di maestrina o infermiera: i giornali ci parlano di “gender gap scientifico” e c’è ancora il maschietto di turno che la vede come “naturale inclinazione”, quando la questione è chiaramente culturale (se fosse la natura a guidare le scelte delle donne, dovrebbe essere così in tutte le nazioni e con le stesse percentuali). Si finge di ignorare che in tante realtà, e fin da subito, alle bambine viene insegnato cosa sia conveniente e cosa disdicevole per una “femminuccia”, e le si indirizza, già con i primi giochi e la divisa rosa, verso i lavori di supporto, i ruoli complementari, di sostegno in una società fatta da uomini e per gli uomini.

Che l’Italia non sia un paese per donne, lo si vede dai redditi più bassi rispetto a quello dei colleghi maschi (secondo il Global Gender Gap Report 2018, stilato dal World Economic Forum, lo scarto percentuale è del 12,7%), dai colloqui di lavoro in cui il caporale di turno chiede all’aspirante lavoratrice se abbia intenzione di avere figli, dal fatto che le donne ricoprano appena il 27,5 % delle posizioni manageriali (dato del Glass-ceiling index 2019 della rivista The Economist).
Che l’Italia sia un paese maschilista, lo si vede dai commenti miserabili alle prestazioni delle ragazze della nazionale di calcio femminile, dal tipo di ironia su Greta Thunberg, dalla violenza sessista con la quale ci si scaglia contro Carola Rackete. Dietro la scusa del tasso tecnico, della giovane età, della violazione della legge, si annida un motivo strisciante e molto più banale: dà maggiore noia il fatto che si tratti di donne. Dà più fastidio che sia una Alexandria Ocasio-Cortez a sbugiardare Trump, in un paese come il nostro, in cui la stragrande maggioranza vorrebbe essere il miliardario in parrucca, proprio come un tempo sognava di essere Berlusconi. E il problema non è mica solo maschile! Molto spesso i commenti violenti e sessisti arrivano proprio dalle donne, quelle che Berlusconi sognavano di sposarlo, quelle che a un certo punto della storia devono aver cominciato a pensare che emanciparsi significava diventare ciniche e volgari come i connazionali dell’altro sesso: la parità come qualcosa da raggiungere verso il basso! La maggioranza delle donne italiane sembra aver smesso di lottare, di fare squadra, dando il via libera ai personaggi beceri che infestano i social, ai talebani nostrani pronti a scagliarsi contro la Malala Yousafzai di turno.

Hate speech. Grafico di Amnesty International Italia.

Che l’Italia sia un paese fallocratico, lo si vede dai numeri della presenza femminile in politica, e ne cito giusto qualcuno per inquadrare la situazione e le differenze con la Finlandia: nel governo Conte ci sono 5 ministri donna su 18 totali (il 28%), il governo Rinne ne conta 11 su 19 (il 58%); la percentuale di donne nel parlamento italiano si assesta al 34% (107 su 315), le donne del parlamento finlandese rappresentano il 46% del totale (92 su 200); nel parlamento europeo, la percentuale di donne nella delegazione italiana è del 38%, in quella finlandese è del 77%, la più alta in Europa con 10 donne su 13 parlamentari totali. Certi traguardi non si raggiungano in un anno, ovviamente: la Finlandia ha una tradizione oramai secolare che parte dal lontano 1906, anno in cui divenne il primo paese in Europa a riconoscere il diritto di voto alle donne e il primo al mondo a concedere alle stesse il diritto di essere elette (ricordiamo pure che Miina Sillanpää, nel 1926, fu la prima donna finlandese a ricoprire il ruolo di ministro, mentre in Italia si dovrà aspettare esattamente mezzo secolo prima che Tina Anselmi, nel 1976, diventi ministro del lavoro).

 L’Italia è al 70° posto nella classifica del Global Gender Gap Report 2018 stilata dal World Economic Forum (Wef).

Sia chiaro, la Finlandia non è il paradiso, e nemmeno qua la parità può considerarsi fatto, qualcosa di completamente acquisito (e l’Onu ora ci fa sapere che nel mondo si è ben lontani dal raggiungere l’obiettivo inserito nell’Agenda 2030 dello sviluppo sostenibile): anche in Finlandia sono gli uomini a guadagnare mediamente di più e a fronte di una popolazione di laureati a maggioranza femminile. C’è tanto da fare anche qui, è vero, ma è vero pure che la vita è fatta di gradi, e il già citato Global Gender Gap Report 2018 piazza la Finlandia al quarto posto della classifica mondiale della parità di genere (dietro Islanda, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia annaspa al 70°: questo vuol dire che tra i due paesi, di gradi ne passano tanti! E non è che sia una sorpresa: mentre in Italia si sta ancora decidendo se alle donne sia concesso o meno toccare la palla coi piedi, nel paese nordico si lancia l’ennesima campagna contro le discriminazioni di genere, Hän, dove il pronome personale di terza persona singolare, unico per il genere femminile e per quello maschile (lei/lui), diventa simbolo di pari opportunità e di uguaglianza contro ogni discriminazione, segno di una società che si è imposta di guardare ai sui cittadini come a individui, uguali e portatori degli stessi diritti al di là delle appartenenze di genere e degli orientamenti sessuali. In Italia cose del genere sembrano al momento utopia, impegnati come si è a toglierli agli altri, i diritti, piuttosto che ad estenderli, impegnati come si è a ricercare sempre il nemico di turno, il “diverso” sul quale riversare le colpe, in preda ad un linguaggio che diventa ogni giorno più barbaro, sempre più disumano e legittimato dall’alto, a partire dal “Ministro delle Interiorae il suo partito, quello che nel parlare alla “pancia”, ai più bassi istinti del paese, vede il suo marchio distintivo e un’astuta arma di propaganda.

Ciao Darwin, programma condotto da Paolo Bonolis e in onda su Canale 5.

Che in Finlandia ci sia una concezione diversa della donna, lo capisci da come appare in strada, in ufficio, in televisione (che è sempre lo specchio della società): a queste latitudini è impensabile che spazzatura come Ciao Darwin e veline sculettanti possa trovare spazio nei palinsesti. Certo, ci trovi Temptation Island anche qua, ma davvero poca cosa rispetto alla quantità e al livello raggiunto della televisione italiana. Il corpo messo in vetrina, la carne esibita per compiacere le masse di trogloditi che sbavano dai propri salotti-caverna, questo malinteso senso della libertà che si misura in centimetri di pelle scoperta, non è che l’altra faccia della medaglia, non è che un altro punto di vista sulla stessa reificazione del corpo delle donne che altrove è mortificato, azzerato, annichilito da veli, ma senza che la sostanza cambi di molto: in entrambi i casi, il corpo femminile è trattato come oggetto che non ha ragion d’essere se non in relazione all’occhio dell’uomo.
Nel paese di Minna Canth, invece, nel paese della scrittrice simbolo della parità e il cui ricordo viene celebrato proprio in quel 19 marzo che nell’Italia patriarcale è riservato alla festa del papà (ironica coincidenza), le cose sembrano andare in modo diverso: alla donna non è riservato il ruolo di quella attraente, necessariamente bella, seducente sempre. Il concetto stesso di valletta, quello che vuole la donna quale “porta busta”, bambolina sorridente e scollacciata, sembra essere assente in Finlandia. Intorno alle donne c’è maggiore rispetto e essere donna è cosa semplicemente normale, dignitosa. 

Ecco, questo è il tipo di paese in cui volevo crescesse mia figlia, questo uno dei motivi alla base del nostro trasferimento. E ancora oggi sfoglio statistiche come fossero margherite, cercando conferme alla nostra scelta e sperando che i numeri nei quali ci siamo infilati siano sbucati nel posto giusto. In Finlandia sembra che le ragazze abbiano la possibilità di giocarsela alla pari, mentre in Italia, oggi, essere libere e forti è sempre più roba da eroine, costrette come sono le donne a partire da meno uno, a dover lottare se non ci si vuole arrendere al ruolo già scritto di mogliettina di qualcuno. Non è impossibile, certo, ma sicuramente più difficile che in Finlandia… E nessun genitore augura al proprio figlio una vita difficile, da eroe: un genitore vuole che suo figlio stia bene. Tutto qua.

Chiamo Morgana e le do la manina: è tempo di tornare a casa perché tutti lo fanno. I bambini si promettono appuntamenti privi di orari, guardando all’indietro mentre cercano di tenere il passo degli adulti, di quei grandi che nel frattempo domandano le solite cose: “ti è piaciuto il giro?”, “hai fame?”, “cosa vuoi fare da grande?”, “stai bene?”

Rientrati in casa, ripongo la bottiglia nella piccola vetrinetta frigo, la cantinetta/scrigno che mi consente di custodire un massimo di 12 “tesori” alla volta. A sto giro si tratta dell’Eric Rodez Cuvée Rosé: Pinot Noir (75%) e Chardonnay (25%) da vitigni Gran Cru da Ambonnay, per un dosaggio extra brut che lo rende davvero interessante, questo rosé de saignée biologico… Stelle in vista, stasera!

Prima, però, è il caso di rendere definitivamente giustizia a questa tipologia di champagne: il rosé non è “uno champagne da donne”, espressione usata solitamente da maschi bifolchi allo scopo di denigrare sia questo vino, sia la competenza delle donne. Chi afferma queste scempiaggini, chi parla di questo vino come di un vinello a metà tra un rosso e un bianco, “contentino per donne inesperte”, probabilmente non sa né di donne, né di vino. Il rosé è uno champagne dignitosissimo che raggiunge picchi di qualità molto alti, e per questo è per donne, per uomini e per chiunque sia dotato di gusto, senso estetico e di un minimo di “gentilezza”. Il colore rimane un elemento importantissimo nell’analisi e nella fruizione del vino, e il rosa può esprimere un’eleganza che è in perfetta sintonia e coerenza con il mondo dello champagne, in generale: vino complesso e leggero allo stesso tempo, che regala poesia e gioia di vivere. “Il rosa è un colore che non entra mai in guerra!”

Ovviamente, se siamo ancora al punto di dover precisare queste che dovrebbero essere banalità, è perché negli anni il rosé ha pagato il prezzo di stupidi stereotipi di genere legati al colore, quelli che storicamente trovano origine nel secolo scorso (nemmeno troppo lontano nel tempo, quindi), da quando, per motivi esclusivamente di marketing, si è pensato che la distinzione cromatica potesse risultare utile ad incrementare le vendite di vestiti e oggetti per bambini, dando così il via alla famosa polarizzazione azzurro=maschio/rosa=femmina. Proprio come dei Joulupukki, dei Babbo Natale qualunque improvvisamente diventati rossi per motivi commerciali, le donne si sono trovate circondate e costrette a un rosa onnipresente, col risultato di veder trasformato un bellissimo colore in una bandiera, una divisa, una condanna per loro e un assoluto tabù per gli uomini.

Fortunatamente, bisogna dirlo, almeno nel mondo del vino sembra che le cose stiano cambiando e, in effetti, i numeri ci parlano di un vero e proprio boom, di un’esplosione delle vendite: le esportazioni dello champagne rosa sono passate dalle 800.000 bottiglie del 1981 alle 15,4 milioni del 2016, e si stima che il consumo totale possa addirittura arrivare a 35 milioni di unità (dati da Le Figaro). Il cambio di prospettiva conforta davvero, anche se rimane purtroppo attuale il rischio di imbattersi nei talebani del calice: i social ammazzano ogni speranza di poesia e ragione.

Il mio Eric Rodez Cuvée Rosé.

Ancora due parole veloci su come nasce il rosé (magari a qualcuno interessa). Ci sono fondamentalmente due modi per ottenere uno champagne rosato: uno è il metodo de saignée, l’altro è l’assemblaggio. La tecnica dell’assemblaggio (o “taglio”) per la creazione dello champagne rosé, fu usata per la prima volta proprio da una donna, Barbe-Nicole Ponsardin, nota come Madame Clicquot, nel 1818 (proprio l’anno scorso si è festeggiato il duecentesimo anniversario di una delle più interessanti rivoluzioni nell’universo del bel vino francese). La vedova, forte di una non comune creatività visionaria, fu folgorata da una semplice intuizione, se vogliamo, che però ha cambiato per sempre le carte in tavola, sovvertendo tanti degli schemi del tempo (il coraggio delle donne!): l’idea consisteva semplicemente nell’aggiunta di vino rosso del Cru di Bouzy alla base bianca. Fu questo il primo rosé d’assemblage ad essere immesso sul mercato. E ancora oggi il rosé assemblato viene ottenuto così, tramite un blend di vino bianco (che può derivare sia da uve a bacca bianca che da uve a bacca nera, o da uve a bacca bianca e nera insieme) e una piccola percentuale di rosso (di solito Pinot Noir ma anche Meunier), in una quantità che normalmente oscilla tra il 7% e il 15%.
L’altro metodo è più complicato, ed è quello cosiddetto “da sanguinamento” (i vini ottenuti con questo metodo si definiscono “rosé de saignée”). Si parla di “permanenza sulle bucce” allo scopo di estrarre il colore: l’acquisizione del colore avviene attraverso il contatto del mosto con le bucce da cui si ottengono le sostanze coloranti. Le bucce “sanguinano” e colorano il mosto. Gli champagne rosati ottenuti con questo metodo, col salasso, prevedono una breve macerazione, quindi, che comporta la vinificazione in rosato delle uve a bacca nera, nella fattispecie Pinot Noir e Pinot Meunier. 

Tutto qua e kippis!

Perlage delicato, un bellissimo rosa ramato, tanti frutti di bosco (le fragoline sono quelle piccole piccole di Finlandia) e spiccata cremosità in bocca. La gioia di vivere!