Findiani

È tornato improvvisamente il freddo e i finlandesi, rintanati e guardinghi, sembrano spariti dalle strade, in attesa di calde novità. Il vento ha spazzato via il bel tempo di ieri e la primavera di quest’anno continua ad essere intermittente come le luci di casa che rendevamo tali giocando con l’interruttore da piccoli. I finlandesi infreddoliti sono gli adulti annoiati che ci chiedevano di smettere.

Tengo la bottiglia per il collo, quasi ad impedirle di strillare e rompere il silenzio, e realizzo che praticamente sono solo su Föri, la chiatta arancione di metallo possente che è tra i simboli pop della città di Turku e che dal 1904 fa da spola instancabile da una sponda all’altra del fiume Aura, trasportando fino a un massimo di 75 concittadini da Est a Ovest e viceversa. Di concittadini in questo momento nemmeno l’ombra e intorno a me c’è solo il deserto, quello freddo. Io sono diretto ad Est, abito a Martti.

Si è già detto molto della simbiosi che i finlandesi vivono con la natura e con il clima, e di come questo abbia a incidere sul loro carattere, sugli umori. Abituati a combattere con l’asprezza del freddo inverno e a godere della luce perpetua durante la bella estate fatta di vita all’aperto, hanno imparato a sintonizzare il proprio respiro a quello delle stagioni e a lasciarsi plasmare da quelle, incarnandone gli estremi. Si può tranquillamente affermare che i finlandesi estivi, sorridenti ed aperti, siano completamente diversi da quelli invernali, più cupi e riservati. In questa primavera intermittente, non mi stupisce che lo stesso vicino di pianerottolo che mi aveva sorriso e salutato appena ieri, finga oggi goffamente di non vedermi: non è facile conservare i sorrisi quando è il vento freddo a portarteli via.


Föri

La letteratura finlandese ne è piena di questo dialogo unico e speciale, di questo continuo confronto con il ciclo delle stagioni e con la natura: le pagine si tingono di verde nei racconti di questi luoghi che a ben vedere sono i protagonisti veri delle storie, a partire dalle foreste del Kalevala, passando dalla Impivaara de I Sette Fratelli di Alexis Kivi e finendo a Nummenpää, il piccolo paesello di cui scrive Paasilinna ne Il migliore amico dell’orso (pubblicato in Italia da Iperborea), dove è appunto un cucciolo di quel mammifero a cambiare la vita del pastore protestante Oskari Huuskonen. Se la natura fosse un dio, i finlandesi ne sarebbero il popolo eletto. Col 75% del territorio nazionale ricoperto da foreste (e un ministero appositamente dedicato), con l’aria più pulita al mondo (è il report 2018 della Organizzazione Mondiale della Sanità ad affermarlo¹), con la permanenza costante ai vertici dell’Environmental Performance Index per le politiche ambientali2, la Finlandia può vantare un patrimonio naturalistico e una sensibilità ambientalista fuori dal comune. Stiamo parlando di un popolo che ha reso praticamente desuete le discariche: il 99% dei rifiuti viene riciclato (qui l’articolo de La Rondine Finlandia). Se il mondo fosse abitato da finlandesi, forse non ci sarebbe bisogno dell’impegno della cara svedesina.

Nella biografia di questo popolo c’è un bellissimo capitolo su questa intensa storia d’amore e riguarda i finlandesi sì, ma quelli al di là del confine, addirittura oltre oceano, e risale ad un tempo in cui erano loro quelli costretti ad emigrare in cerca di fortuna (non lo sappiano i Perussuomalaiset!).
La conoscete la storia dei “findiani”? La racconta benissimo un recente documentario – dal nome Fintiaanit, appunto – riproposto appena un mese fa dalla tv nazionale YLE. L’autrice Katja Kettu, accompagnata in questa avventura dalla giornalista Maria Seppälä e dalla fotografa Meeri Koutaniemi, documenta la vita di questo curioso popolo all’interno delle riserve in cui vivono. Ma partiamo dal principio. Chi sono i Findiani?

Tra la seconda metà del 1800 e il 1950, circa 400.000 migranti, in maggioranza uomini, partirono dalla Finlandia verso il Nord America, per finire a lavorare nelle miniere e nei campi. Si tratta di numeri spaventosi considerando la modesta entità della popolazione finlandese.
Si stanziarono nella regione dei Grandi Laghi (Minnesota, Michigan, Ontario) diventando, in alcuni casi, i vicini dei nativi Ojibway, tutt’altro che pacifici, eterni nemici dei Sioux e tra le tribù confederate che avevano partecipato, un secolo prima, alla Guerra di Pontiac, la famosa ribellione contro i britannici che ebbe esiti nefasti per gli indiani americani.
Gli Ojibway avevano più di un motivo per provare diffidenza verso i “bianchi”, verso quegli europei che, allo scopo di decimarli, addirittura non si erano fatti scrupolo di usare il vaiolo all’interno di quella che fu una vera e propria guerra batteriologica.
Le premesse non erano delle migliori, ma è qui che accadde il miracolo: i nativi si accorsero ben presto della diversità dei nuovi arrivati, del loro modo tutt’altro che antropocentrico di integrarsi nella natura e libero da presunzioni di superiorità sulla stessa. Consapevoli di essere solo una parte in rispettosa armonia con le altre, i finlandesi erano pacifici e, profondi conoscitori della foresta e dei suoi segreti, preferivano abitare lì piuttosto che nelle città.
Tra gli alberi è il luogo in cui si ebbero i primi contatti, i primi scambi, i primi gestuali dialoghi tra due popoli dalle radici apparentemente così lontane e che invece trovavano orgoglio, cittadinanza e linfa nella stessa terra, nello stesso bosco, nello stesso silenzio quale lingua comune. I rapporti cominciarono ad intensificarsi e si ebbero presto i primi matrimoni misti e da questi i primi “Findiani”. Il documentario di Katja Kettu ci mostra la vita dei loro discendenti, raccontando come sono e come vivono adesso.
Attraverso le storie dei protagonisti si ricostruiscono le vicende di quel curioso incrocio e le implicazioni dello stesso nella vita quotidiana: dalla sauna come luogo spirituale e di purificazione, alle discriminazioni che comunque hanno dovuto subire e che ancora subiscono in quanto “troppo bianchi per essere indiani e troppo indiani per essere bianchi”. Non manca il lato più cupo relativo all’abuso di alcol, problema storicamente non certo estraneo alla vita nelle riserve indiane e che con l’arrivo dei finlandesi, forse, si è anche amplificato. In generale, ne esce un bel viaggio alla riscoperta delle proprie radici, un ritorno alle origini che è sottolineato anche dal viaggio di uno dei protagonisti ad Helsinki.
Canti tradizionali, immagini poetiche, “blues” e silenzi… Davvero imperdibile.

La bottiglia che ho tra le mani e che riguardo dopo che il tonfo del metallo contro la banchina mi ha avvisato di scendere, è il De Sousa Champagne Brut “Cuvée Tradition”. Il primo collegamento con la storia dei Findiani a venirmi in mente, è che i De Sousa, originari del Portogallo e approdati in Francia all’inizio del 1900, possono anche essi vantare radici miste e profonde come quelle dei loro vigneti (vecchie anche 70 anni, le viti raggiungono fino ai 25/30 metri di profondità, cosa che permette di “estrarre dal sottosuolo gessoso il meglio dei sali minerali e degli oligoelementi”). Ma non è certo l’unico link. Il Brut Tradition è uno champagne impeccabile che nasce da una cuvée di assoluto rispetto e che prevede un 50% di Chardonnay, un 40% Pinot Noir e il resto Meunier. Un vino fresco e caratterizzato da una bella spalla acida (lo Chardonnay comanda) sorretta comunque dalla solida struttura garantita dal Noir e resa graziosa dal piccolo mazzolino di fiori Meunier. Trattasi di vino biologico e biodinamico (ed ecco servito l’altro collegamento!): la maison di Avize, villaggio della Côte des Blancs classificato Gran Cru, è famosa per produrre ottimi vini e nell’assoluto rispetto del territorio, il tutto secondo le regole della agricoltura biologica ed organica (nelle zone più delicate, è preferito ancora il cavallo al trattore nelle operazioni di aratura, al fine di evitare una eccessiva compressione e consentire maggiore respirazione al suolo).

Se non ci sono dubbi su cosa si intenda per agricoltura biologica (“terreni lontani da fonti di contaminazione; divieto di utilizzo di prodotti chimici di sintesi come fertilizzanti, diserbanti e insetticidi; bestiame nutrito con mangime non trattato chimicamente e senza l’uso di antibiotici, ormoni o altri stimolanti della crescita”), un po’ più complicata appare la definizione di agricoltura biodinamica (e sarebbe importante capirne di più, vista la sempre maggiore diffusione del fenomeno nel mondo del vino). Quelli di Demeter, l’associazione che ne dà la certificazione, ci provano dalle pagine del sito web³: un’agricoltura “in sintonia con la natura, con la terra e con gli uomini”, che prende corpo dalle tesi di Rudolf Steiner, filosofo austriaco vissuto tra la seconda metà del 1800 e inizio ‘900 (lo stesso che ha ispirato anche le scuole steineriane). Queste teorie avrebbero come obiettivo finale, volendo stringere, il raggiungimento della maggiore fertilità possibile del suolo e, a tale scopo – qui l’aspetto naif e “stravagante” – prevedono l’impiego di pratiche esoteriche influenzate degli influssi astrali e che si concretizzano nell’uso di composti di dubbia utilità quale il “cornoletame” (composto 500), formato appunto da feci e corna di mucca. Roba che in alcuni momenti ricorda lo sciamaneisimo!

La dinamizzazione dell’acqua del “cornoletame”

Il dibattito sulla reale efficacia di questo metodo è più che mai vivo. Online si può trovare un’interessante conferenza4 tenuta dal chimico Dario Bressanini su invito addirittura del CICAP (“l’organizzazione che promuovere l’indagine scientifica e critica sui cosiddetti fenomeni paranormali e più in generale sulle pseudoscienze”). Si fa riferimento a uno studio della Università di Washington del 2005 i cui risultati evidenziano che dalla comparazione delle analisi di due terreni entrambi piantati a Merlot, l’uno lavorato con agricoltura biologica e l’altro con la biodinamica, non emergono sostanziali differenze, considerevoli tratti distintivi (lo studio è relativo ad un lasso di tempo abbastanza lungo che va dal 1996 al 2003). Se per Bressanini non c’è nessun dubbio sui vantaggi qualitativi della agricoltura biologica rispetto a quella ordinaria, lo stesso non si può dire dell’agricoltura biodinamica rispetto a quella biologica. Attenzione, lo studio citato non dice che i prodotti dell’agricoltura biodinamica non siano salutari, dice semplicemente che l’agricoltura biodinamica non raggiunge risultati migliori rispetto a quelli già raggiunti dalla biologica. In pratica, la biodinamica, stando a quanto dice lo studio dell’università di Washington, sarebbe poco più che “Bio + fuffa”.

Il De Sousa che mi accompagna lungo la via di casa come un caro amico, le ha comunque tutte e due le certificazioni, biologica e biodinamica, cosa che quantomeno dovrebbe sgombrare il campo da ogni dubbio riguardo l’approccio di una azienda che vede il suo marchio distintivo in un’attenzione particolare ai processi naturali, alla genuinità del prodotto e alla sostenibilità del suo operato. Ecco, forse la certificazione biodinamica, a pensarci bene, può valere qualcosa sul piano etico, “filosofico” più che scientifico, e riflette una tensione a preservare, nella produzione, l’armonia e l’equilibrio degli elementi naturali tutti: “l’azienda agricola è un organismo in cui i soggetti che la compongono – fattori, animali e piante – devono considerarsi un tutt’uno all’interno di una continua cooperazione che concorre alla salute dell’intero ecosistema”. Chi si dedica alla biodinamica (o almeno chi lo fa in buona fede), oltre che produrre vini di qualità intesi come genuini e non “industriali” (cosa raggiunta già dal bio), sembra volerlo farlo mantenendo una visione più generale, universale, “olistica”, che punta al benessere della natura nel suo insieme. Vista così, la cosa può forse mantenere un senso e non risultare, banalmente, l’ennesima trappola commerciale per ingenui e specchietto per le allodole al pari di una omeopatia qualunque.

Il mio De Sousa Brut Cuvée Tradition

Quando sono ormai a casa e posso finalmente liberarmi della giacca, avverto, improvviso, il bisogno di sauna: c’è abbastanza tempo prima di prepararsi alla serata, e adeguare la pressione al respiro della foresta, distendersi al livello del muschio, può solo far bene. Il colore del legno accarezza gli occhi col vapore; il rumore della pietra rovente che reagisce alle sferzate dell’acqua, risveglia i sensi prima di riconsegnarli al riposo… Il calore leviga con puntiglio gli spigoli dell’anima…
Stasera brinderemo ai Findiani e all’aria pulita, alla natura e allo Champagne (un metabrindisi per questo vino che della natura ne è espressione superba!). Le parole non faticheremo a trovarle perchè le prenderemo in prestito dal saggio indiano: Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli.
Kippis!

Si dice che in giro, tra cantine ed enoteche, ci siano un miliardo di bottiglie di Champagne: a 7 calici a bottiglia, beh… ce n’è per tutti!

Ah… e la musica?

Qualche nota: 

  1. Articolo da Yle.fi sull’ultimo Report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla qualità dell’aria
  2. Environmental Performance Index 2018
  3. Il sito Demeter Biodinamica
  4. La conferenza tenuta da Bressanini sul vino biodinamico

Il documentario su Yle Areena

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