Sono le 17:30 di un sabato ordinario e devo correre: Alko, unico marchio autorizzato alla vendita di vino e superalcolici, chiude tra 30 minuti e in tutto il Paese non sarà possibile acquistare una sola bottiglia di nettare prima di lunedi mattina. Capirete, una tragedia! -Che nazione incivile!- penso, lì seduto nel puntualissimo e lindo autobus che mi porta in centro, attraversando strade prive di traffico e percorse da automobilisti modello che non userebbero il clacson nemmeno sotto tortura.
Seduta accanto a me c’è mia figlia – una simpatica e vispa “cuvée” 50% Italia e 50% Finlandia di 4 anni – e so che può essere fonte di disagio, qui, comprare alcolici in presenza di minori: la gente, un po’ moralista, forgiata da secoli di severo luteranesimo, non vede la cosa di buonissimo occhio.
Se per noi italiani, in genere, è normale vivere con gioia il rapporto con il vino e con l’alcol, per i finlandesi sembra prevalere il senso di colpa. Ed è anche fondato! Soprattutto in passato, anche recente, l’alcol era visto solo come problema, come fonte di tristezza e drammi. L’uso era sinonimo di abuso e il consumo era destinato al solo scopo di ubriacarsi (e per le vecchie generazioni può essere ancora così). “Bello se funziona”, è il motto da queste parti! Approccio che può avere senso e dignità se riferito all’austero ed elegante design nordico¹, all’architettura -razionale e minimalista- di Alvar Aalto, ma un po’ meno se riferito al bere e se quel “funziona” è interpretato come “idoneo a devastarmi nel minor tempo possibile e con l’impiego di poche risorse”. Oggi, bene dirlo, le cose vanno decisamente meglio, stanno cambiando rapidamente: la “ricetta islandese”, quella degli hobby e sport fin da subito allo scopo di tenere lontani i giovani dagli abusi, sembra produrre, anche qua, risultati eccellenti². La cultura del bere consapevole prende piede e, cosa che potrebbe interessare addetti ai lavori e avventurosi pronti a consigliare vini a queste latitudini (e a queste temperature!), anche la scena enogastronomica sta crescendo a vista d’occhio: la cucina nordica è ormai “trendy” e nella sola Helsinki si possono contare ben 6 ristoranti stellati (si stampino i curricula!).
Ma torniamo al mio sabato pomeriggio! Quando manca ormai solo un quarto d’ora alla chiusura del negozio di vini, sono finalmente dentro. Stremato ma sono dentro! Mika Lehtinen, il commesso, mi vede e tira un sospiro di sollievo, come se avessimo un appuntamento e fosse preoccupato per il mio ritardo: mi viene incontro. La bambina, Morgana, comincia il suo personalissimo giro tra i corridoi. Apro e chiudo parentesi: per i bambini ogni cosa si riduce a mera estetica (la loro!) e anche l’acquisto di vino non sfugge alla regola del “Isi (papà, in finlandese), compra questo, guarda che bello!” Non mi sottraggo alla regola e infilo nel cestino, solo per non deluderla, una bottiglia di plastica da 20cl di Gato Negro – Cabernet Sauvignon 2017 dal Cile – che, apparentemente, sembra avere il solo merito di mostrare il bel disegno di un gatto in etichetta. Mika Lehtinen annuisce ma si intuisce che è nervoso: chiudere con un solo minuto di ritardo sarebbe una macchia indelebile nella sua onorata carriera e la cosa potrebbe consegnarlo a un futuro di solitudini e depressioni. Bisogna sbrigarsi! Non c’è tempo per la ricerca, per la caccia al tesoro, e sono costretto a puntare, quindi, tutto sulla sicurezza (la mia!) all’interno della fascia di prezzo che mi compete, quella fatidica dei 30-50€. Gosset Champagne Brut Excellence, entry-level della bella maison francese, è la scelta. Entry-level ma non per molto, ahimè! Pare, infatti, che quelle sugli scaffali siano le ultime bottiglie in circolazione: adesso esportano solo le “Antique Rang”, mi confermano gentilmente via messenger.
Si alza il livello (questa la nuova politica della maison, quindi): la nuova entry-level sarà la Grande Réserve Brut e si parte dunque dai 50€ a salire. Anche per questo motivo scelgo l’Excellence, vino perfetto se le entrate non sono da “artista” trap e se lo scopo è sollevarsi quei dieci centimetri dal suolo: presto non sarà più possibile berlo ed è come dire addio ad un vecchio amico. Prezzo al pubblico, qui: 40€ tondi tondi (immagino meno, in Italia).
Dei Gosset incuriosisce il fatto che siano arrivati allo champagne relativamente tardi, solo a metà del secolo scorso, pur essendo stati i primi (già dalla fine del 1500!) a produrre vino nella regione in cui si imbottiglia la prosa che fermenta in poesia. Non fanno la malolattica perché interessati a preservare “l’arôme naturellement fruité des vins” (così scrivono nell’elegantissimo sito web³, nel quale potete trovare tutte le informazioni sulla maison) e il processo di espulsione dei sedimenti è ancora manuale (romantici!): controluce, mi sembra di scorgere le impronte dei polpastrelli di Jean-Pierre Mareigner, lo storico chef de cave venuto a mancare un giorno di maggio di tre anni fa. Io sospiro innamorato, Mika Lehtinen sospira perplesso (le impronte sono le sue ma per delicatezza non lo dice).
L’Excellence è un classico trois cépages e le uve hanno tutte una classificazione minima al 95%. La cuvée prevede Pinot Noir al 45%, Chardonnay al 36% e Pinot Meunier al 19%. Le “forme” sono gentilmente offerte dal Noir; le “stelline” ce le mette lo Chardonnay; e poi… E poi (spallucce) c’è il Meunier. Qui si apre la rubrica dei tic del consumatore. Il Meunier rappresenta un bel paradosso nell’approccio del consumatore allo Champagne. A tutti piace l’espressione “trois cépages”, a tutti piace ripeterla ma, nei fatti, stringi stringi, tutti vorrebbero che i cépages in questione fossero due (si compra un Gosset Excellence e si sogna il Dom Pérignon!). Il consumatore, quando si avvicina alla bottiglia che nasce dai tre vitigni classici, va subito a cercare la percentuale di Meunier… E spera sia bassa! Può anche essere irrazionale, infondato, ignorante, ma è così: il Meunier è vissuto quasi come un rabbocco necessario ad arrivare ai 75 cl. Hai voglia a spiegare come fa Mika Lehtinen, anche un po’ scolasticamente, che “dona aroma e frutto”, il Meunier, come idea, non piace a nessuno. Mi ricorda un po’, i più cresciutelli capiranno, il baffuto dei Ricchi e Poveri, del quale nessuno ha mai sentito la voce, schiacciato come era tra la potenza del maschio (il Pinot Noir della situazione) e la voce squillante della brunetta (“la Chardonnay”).
Un po’ quello “sfigato”, insomma. Quel centrocampista che si fa il mazzo e contribuisce alla vittoria della squadra ma che, tutti lo sanno, non avrà mai l’onore dei titoli dei giornali. “Una vita da Meunier”, cantava Ligabue.
È tardi, si chiude! Recupero la bambina ai vini spagnoli (e mi salvo appena in tempo dai tanti tori in etichetta!), pago e in un attimo sono di nuovo sulla via di casa. Morgana continua a mostrare con orgoglio la “sua” bottiglia di rosso cileno ai passanti ed io continuo a collezionare occhiatacce. Ma va bene così, stasera ci sono le bolle!
Sono a casa! Mostro la bottiglia a mia moglie e simulo il fiatone a sottolineare la grandezza dell’impresa: «Ce l’ho fatta!» Lei non batte ciglio e, consapevole dell’efficienza dei mezzi pubblici finlandesi, mi fa notare che tirare giù una bottiglia dallo scaffale non deve essere stata una prova così epica. Anche sta volta, niente medaglia!
Arriva la sera, la bambina dorme, apro la bottiglia.
Il colore è bello, un giallo paglierino elegantissimo, e la “collana di perle” che emerge dal basso è fitta e raffinata (è un vino che affina sui lieviti almeno 36 mesi e le bolle sono come devono essere). Sarà per questo che amiamo lo Champagne? Perché ci rimanda ai palloncini rigonfi d’elio che, fuggendo verso il cielo, ci tenevano “naso all’aria” da piccoli? Al naso c’è la pesca e sentori di frutta secca. In bocca è fresco e compaiono gli agrumi. C’è una bella acidità. Potente e persistente, il finale: leggermente sapido, ti “asseta” quanto basta per trascinarti immediatamente al calice successivo… Son ciliegie, mica bicchieri!
Lo bevo con gusto e sto benissimo, accompagnandolo con un po’ di sushi e uva bianca. La soddisfazione è piena e posso sprofondare nel divano. Cullato dal brusio del programma TV del quale, forse, capirò non più del 20% di quello che si dice, mi lascio andare a riflessioni da linguista: il finlandese arretra il più possibile gli accenti; il francese, al contrario, li vuole sull’ultima sillaba della parola… Io da italiano, ignorante e brillo, li pongo nel mezzo e provo, in questo modo, a fare incontrare a metà strada due mondi così distanti tra loro. E mia moglie ride.
Che confusione, sarà perché ti amo, caro Champagne! E mi sembra pure di scorgere la voce del baffuto dei Ricchi e Poveri.
Ciao a tutti!
Note:
- Design finlandese: Marimekko e Iittala
- I risultati eccellenti della lotta agli abusi
- Gosset, sito web